Negli ultimi mesi, navigando sul web e seguendo community di settore, si percepisce un cambio di tono nel dibattito sulla sicurezza informatica.
Non si parla più soltanto di cyber resilienza – la capacità di difendersi, assorbire l’urto e ripristinare i sistemi – ma sempre più spesso si sente parlare di cyber attacco.
In diversi Paesi esteri si stanno sperimentando modelli che prevedono il coinvolgimento di risorse esterne – esperti, consulenti e aziende private – per collaborare con le forze dell’ordine non solo nella prevenzione, ma in una vera e propria strategia di contrattacco digitale.
Un approccio che, almeno sulla carta, sposta l’equilibrio da una difesa passiva a un’azione proattiva e deterrente.
In Italia, però, questo discorso incontra numerosi ostacoli.
Spesso si citano vincoli giuridici e normativi come freno a tali iniziative.
Personalmente, ritengo che il vero nodo sia più profondo e di natura costituzionale.
L’articolo 11 della nostra Costituzione è chiaro:
“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.”
Ed è proprio qui che nasce la contraddizione.
Se consideriamo il cyber spazio come un nuovo dominio bellico, armare digitalmente professionisti civili – anche a scopo di difesa proattiva – significa di fatto entrare in una logica che sconfina nella guerra digitale.
E questo non può essere ignorato.
Che la tecnologia abbia ormai permeato ogni aspetto della nostra vita e della sicurezza nazionale è un dato di fatto.
La difesa del Paese non è più solo fisica, ma anche digitale.
Tuttavia, prima di pensare di strutturare un esercito di “cyber combattenti”, occorre chiedersi: è costituzionalmente legittimo?
L’iter organizzativo che potrebbe portare a una collaborazione strutturata tra professionisti civili e istituzioni di difesa deve prima passare da una riflessione politica e costituzionale, capace di ridefinire il perimetro entro cui lo Stato può operare nel cyber spazio senza violare i principi fondanti della Repubblica.
In definitiva, è giusto e doveroso rafforzare la nostra cyber resilienza.
È altrettanto necessario discutere di come prevenire e gestire gli attacchi informatici che colpiscono cittadini, imprese e istituzioni.
Ma passare da un approccio difensivo a uno offensivo non è soltanto una questione tecnica o giuridica: è soprattutto una questione di valori costituzionali.
Prima di “armare digitalmente” i professionisti, serve un dibattito trasparente che affronti il tema alla radice:
può l’Italia, un Paese che ripudia la guerra, autorizzare il contrattacco digitale?
Forse la vera sfida, oggi, non è soltanto quella di costruire firewall più forti o task force di esperti, ma quella di trovare un equilibrio tra l’esigenza di protezione e il rispetto dei principi democratici su cui si fonda la nostra Repubblica.